The power of the Dog


dodici anni sono passati dall’ultima avventura cinematografica di Jane Campion, quel delizioso Bright Star da tanti troppo snobbato. E dopo una parentesi televisiva con le due stagioni della magnifica serie Top of the Lake (2017-2019) ritorna sul grande schermo con il film The power of the Dog (2021),un mèlo post-western psicologico ambientato nelle praterie del Montana degli anni ’20 ( in realtà è girato in Nuova Zelanda) dove non si spara o ci si scazzotta, ma in compenso si ama male, tra anime corrose e paesaggi tra inferno ed Eden.

Ispirato all’omonimo romanzo del 1967 di Thomas Savage (edito in Italia da Neri Pozza), dal quale la regista ha dichiarato di essere rimasta stregata. Una storia di uomini, una novità per un’artista tanto legata al mondo femminile. “Sono una persona creativa non ho calcolato la percentuale di genere quando ho scelto di raccontare questa storia”, ha dichiarato durante la conferenza stampa di presentazione della pellicola alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia dove ha vinto il Leone d’Argento per la Miglior regia.

Tra i due fratelli Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons), che gestiscono il ricco ranch di famiglia, cova la brace.
George è mite, sensibile mentre Phil ostenta una brutalità da bovaro, castra gli armenti a mani nude e vive nel culto del mentore – un“vero uomo”! – che lo ha forgiato.
Quando George “il panzone” sposa Rose (Kisten Dunst, quasi irriconoscibile), “la vedova di un suicida con un figlio rimbambito” è guerra tra le mura di casa.
La violenza è sorda, subdola ma implacabile. Phil spinge Rose a rifugiarsi nell’alcool, tortura quell’adolescente fragile dai gusti femminei che sembra nato per farsi umiliare.

Manipolatore, astuto, permaloso in modo quasi patologico, Phil altro non è che il volto reale, storico, di una mascolinità tossica e ributtante, di una realtà sociale e familiare che il cinema ha sempre distorto e camuffato, mentre ci parlava di John Wayne e Charlton Heston, di Gary Cooper e Burt Lancaster come di aitanti adoni dal grilletto facile ma dall’animo sensibile.
Lui vive per dominare la natura verso cui non ha alcun sentimento se non quello di gratitudine nei momenti in cui ne fa contenitore di un’utilità totalmente personale, che sfugge alle regole dell’empatia e dell’affettività. Eppure, rimarrà prigioniero della sua stessa “mascolinità tossica” , una maschera questa dove nascondere se stesso  mostrando esattamente l’opposto di come potrebbe (forse vorrebbe?) essere, aderendo a quei dettami rurali e machisti che sono solo il riflesso di ciò che da lui si aspetta la società e che, se li facesse decadere, potrebbero portalo alla rovina.

Campion si cimenta in una rilettura critica – con occhi “femminili” e fors’anche femministi, certo, ma ancor prima autoriali – del momento storico prediletto del cinema classico americano, ovvero quello della conquista del Far West da parte dei virili e impavidi coloni a cavallo.
Come già prima di lei con Kelly Reichardt (First Cow) e Chloe Zhao (The Rider) anche la Campion  sembra voler demolire un ideale di virilità anacronisticamente machista e di per sé mai realmente esistito – se non entro le rappresentazioni cinematografiche maschili dell’epopea cowboy consegnandoci un post-western psicologico di anime sole, sempre fuori posto, intrappolate da una frontiera ideale, quella del mito machista dell’autodeterminazione tutto americano che piega e spezza soprattutto chi finge di padroneggiarlo alla perfezione.

The power of the dog somiglia così  a una parabola sull’essere umano, con un finale preciso, forse prevedibile, ma non per questo meno esauriente.
Sicuramente un’opera potente, originale, che vive di metafore e di contrasti, di dubbi e di una violenza che è più nelle parole, negli sguardi e nei visi che sul corpo dei protagonisti. Su tutto e tutti, domina un Benedict Cumberbatch a dir poco straordinario nell’interpretare “il cuore spezzato e l’anima oscura di questa storia” (Jane Campion).
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